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Tra mito e scienza: i vini ispirati dalle scoperte archeologiche

In Toscana la stessa terra che produce vigneti ha custodito per secoli anfore e dolia, grandi contenitori di terracotta usati dai romani per conservare liquidi. Alcuni produttori, ispirati da ricerche archeologiche, hanno dato vita a veri e propri esperimenti scientifici in collaborazione con le università, per riportare alla luce e nei bicchiere vini prodotti con metodi antichi.

Sulle pendici delle Foreste Casentinesi, nell’azienda agricola Bio Tarazona Miriam ad Arezzo, Francesco Mondini ha dedicato quattordici anni per produrre un vino, ricostruendo il metodo degli antichi etruschi. Un progetto che ha richiesto il coinvolgimento di archeologi – tra cui il professor Maurizio Pellegrini, direttore didattico del Museo di Villa Giulia a Roma – geologi per studiare le specificità del terreno, agronomi per rendere possibile una produzione biologica e biodinamica. Partendo da vigneti molto antichi, coltivati con il metodo della permacultura, il vino viene vinificato in cantina in anfore di terracotta aperte per circa quindici giorni, poi trasferito nelle giare sepolte a tre metri di profondità, dove rimangono visibili solo le bocche che sbucano dal suolo, quasi un giardino di terracotta. Il vino matura per un periodo che varia da uno a quattro anni. La parte più interessante riguarda la vinificazione in orci di terracotta. Mondini ha sviluppato un metodo particolare per trattare la superficie interna di questi contenitori con cera e resine, battezzato appunto “metodo Mondini”. Il risultato si chiama “Album”, scritto da destra a sinistra come le iscrizioni etrusche. L’azienda continua la collaborazione con l’università di Siena per lo sviluppo della vinificazione etrusca con il Prof Andrea Zifferero e l’archeologo Riccardo Chessa e con l’università di Pisa per il monitoraggio degli antichi vigneti.

L’esperimento enologico denominato “Nesos”, il vino marino, è stato realizzato dall’Azienda Agricola Arrighi dell’isola d’Elba nel 2018, in collaborazione con il Professor Attilio Scienza, dell’Università degli Studi di Milano e Angela Zinnai dell’Università di Pisa. L’idea è stata quella di ripercorrere dopo 2500 anni, sulle tracce di un mito, le varie fasi della produzione di un vino antico: quello di greci dell’isola di Chio. I vini di Chio, piccola isola dell’Egeo orientale, facevano parte di quella ristretta élite di vini greci considerati prodotti di lusso, Varrone li definiva “vini dei ricchi”. Il segreto per conservare il vino era la presenza del sale derivante dalla pratica dell’immersione dell’uva chiusa in ceste, nel mare, con lo scopo di togliere la pruina dalla buccia ed accelerare così l’appassimento al sole, preservando in questo modo l’aroma del vitigno. Partendo da queste scoperte archeologiche Arrighi ha immerso le uve in mare per 5 giorni a circa 10 metri di profondità, protette in ceste di vimini. Questo processo ha consentito di eliminare parte della pruina superficiale, accelerando così l’appassimento al sole sui graticci. Il successivo passaggio delle uve avviene in anfore di terracotta con tutte le bucce, dopo la separazione dei raspi. La presenza di sale nell’uva, con effetto antiossidante e disinfettante, ha permesso di provare a non utilizzare i solfiti, arrivando a produrre, dopo un anno in affinamento in bottiglia, un vino estremamente naturale, molto simile a quello prodotto 2500 anni fa.

(Crediti fotografici; foto di proprietà delle aziende)

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