Nella Toscana del XVI secolo si lavoravano cappelli di paglia di una raffinatezza tale che il granduca Cosimo I usava farne omaggio ai sovrani. Nel 1714, la svolta: Domenico Sebastiano Michelacci seleziona e semina un frumento destinato alla paglia per cappelli, contribuendo a sviluppare un’industria che aveva come riferimento trecciaiole (il cappello è composto da decine di giri di trecce di paglia realizzate a mano), fattorini, cappellai e, come indotto, artigiani per la fornitura di forme di legno o metallo, casse, fiorai, tintorie.
La notevole produzione rese necessario, per il trasporto, l’utilizzo di piccole imbarcazioni dal fondo piatto (i navicelli) che solcavano l’Arno da Ponte a Signa (Signa è il luogo di origine, a pochi chilometri da Firenze) al porto di Livorno; qui i cappelli venivano spediti oppure venduti sul posto agli inglesi, per i quali divennero Leghorn hats. La ferrovia dette un ulteriore impulso alla commercializzazione di un prodotto che ha impegnato, per essere realizzato, fino a un terzo della superficie coltivabile del Granducato di Toscana e circa centocinquantamila lavoratori dipendenti. Tra le innovazioni, in area fiesolana nel 1828 fu introdotto un telaio in grado di far realizzare trecce di grande fantasia ed effetto (una tecnologia svizzera).
Noto in tutto il mondo come cappello di paglia di Firenze, con questo nome ha dato il titolo a un’opera lirica e a un film, è stato citato in ambito musicale e letterario; è stato indossato da principesse e personaggi di ogni tipo, compresi artisti come Francis Ford Coppola, Harrison Ford o Julia Robert. Il Museo civico della paglia e dell’intreccio, a Signa (dedicato, manco a dirlo, a Michelacci), testimonia nella nuova, scenografica sede (inaugurata dal 2023), tale incredibile patrimonio: una bella vetrina per la produzione di questi cappelli di grande valore, non solo economico.